Cip

Alle mie spalle percepii un lieve fruscio, poi un tonfo ovattato e subito dei sibili. Mi voltai e non vidi nulla.

“Correte, c’è qualcosa dietro la macchina della cucina!” cercai aiuto. Avevo cinque anni.

Il sibilo continua mentre mia madre estrae da dietro la cucina un fagottino rosa, un pulcino di passerotto, completamente implume. Era scivolato dal nido attraverso la nostra canna fumaria, giù in picchiata per quattro piani. “Piu… piu… piu…” geme a bocca spalancata.

Le mie sorelle e mio fratello accorrono, circondiamo mia madre, stupiti, emozionati, ognuno con la stessa espressione di speranza: “Rimarrà con noi, ce lo teniamo, non è vero?” Alessandra domanda per tutti. Potrebbe morire, è troppo piccolo… risponde nostra madre, ma intanto ammolla del pane nell’acqua, lo appallottola in una piccola pallina che spinge con la punta del dito in fondo alla sua gola.

“Cos’è questo?!” guarda atterrita il collo del pulcino dove è apparso un bozzo enorme, lui pigola ancora più forte.

Sarebbe stato facile in questi giorni: digitavi pulcino-bozzo-collo e voilà, ecco la soluzione. Stavamo sperimentando in diretta il funzionamento del gozzo, una parte dell’apparato digerente dei pennuti. Il pulcino pigola con insistenza perché il suo gozzo deve essere riempito, solo allora sarà sazio.

Noi lo fissiamo inerti, sopraffatti dal senso di colpa. “Piu piuuuu piuuuu…” il pigolio si smorza, si fa quasi impercettibile.

Mamma fai qualcosa, sta morendo, non lo vedi? sussurro in preda al panico. Al contrario, mio fratello di dieci anni suggerisce di rimpinzarlo ancora: “Ha fame, non capite!” E mia madre lo asseconda, prepara la terza e la quarta pallina. D’altra parte il pulcino è lì, pronto ad accoglierle a bocca spalancata, nonostante il suo gozzo s’ingrandisca a dismisura.

“Oddio ha chiuso gli occhi!” mia madre guarda attonita il pulcino immobile sul palmo della sua mano. Si scatena il panico. Poi, d’un tratto, una zampetta si anima, giusto un tremolio che ci rincuora.

La caduta, l’incontro con gli umani, l’abboffo di pane: il pulcino allo stremo delle forze è sprofondato nel sonno.

Lo adagiamo in un piccolo cestino di vimini rivestito con del cotone. Alle cinque del mattino ci risveglia reclamando cibo.

Pane inzuppato con acqua per due settimane. Sul suo corpo spunta il primo abbozzo di piumaggio color avana chiaro, una peluria simile a fili d’ovatta che a poco a poco si trasforma in delle vere piume. Il piccolo si fa grandicello.

Arriva il momento di scegliere come chiamarlo. D’altronde ha iniziato a relazionarsi a suo modo con noi, un nome è necessario. E allora via con i Carlo, Lucina, Pasquale, Paola – maschio femmina non fa differenza - Cucciolo. Pisolo, Brontolo… decine e decine di nomi. Alla fine la scelta converge su Cip. Ce lo aveva suggerito lui stesso perché imperterrito, col il collo proteso in avanti, aveva cinguettato tutto il tempo durante la faticosa scelta.

“Cip vieni qui…” “Cip, che bello che sei!” “Cip, passerottino!” – da allora chiamai tutti gli animali passerottino. Il passero rispondeva volando fino alle nostre spalle, si avvicinava al viso beccando dolcemente la bocca. Mai rinchiuso in una gabbia, entrava e usciva dalle finestre quanto voleva. Libero, felice, forse, chissa? L’avevamo umanizzato troppo? Un passerotto solitario, incapace, ormai, di rientrare nel suo mondo.

Sono stata sempre convinta che sia rimasto con noi tre anni. Ognuno di noi ha un ricordo diverso.

Un anno, qualche mese…

eppure ricordiamo bene come ci ha lasciato.

Mia sorella più grande, Rossana, stava lavando il bagno. Cip era lì, zampettava allegramente intorno ai suoi piedi.

È stato un attimo.

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A Cip

Il passero solitario di Giacomo Leopardi

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimé, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni nostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? Che di me stesso?
Ahi pentiromi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.