A novembre dello scorso anno il mio compagno ha trovato un piccolo uccello ancora implume nel giardino condominiale, probabilmente era caduto dal suo nido.
Lo ha raccolto da terra giusto in tempo, prima che un gatto lo divorasse. Non sapendo cosa fare, era la sua prima esperienza con un pennuto, lo ha messo al sicuro dentro una cassettina nel sottoscala del nostro giardinetto, in attesa che tornassi e decidessimo come comportarci.
Ho suggerito di provare a tenerlo con noi qualche giorno. Non era poi così piccolo, doveva rinnovare la metà delle piume e sviluppare le ali, altresì, era in grado di nutrirsi per conto proprio.
“Ma a quale specie appartiene?” c siamo chiesti. Un passerotto di sicuro non è, troppo grande e scuro per essere uno storno. “Guarda il suo becco… se fosse una cornacchia?” azzardo.
Appena il venditore di un negozio di animali ha visto la sua foto, ha affermato con assoluta certezza che si trattava di un cucù. Proprio così, ci eravamo imbattuti in un cuculo. Parte allora la ricerca in rete delle immagini di pulcini di cucù: “Sì è proprio lui, guarda il becco, lo stesso colore delle piume. Un cucù, che bello!” ci convinciamo, il mio compagno, mio figlio e io. L’idea di poter crescere un cucù ci ha talmente entusiasmati che seppure ci fossero state delle discrepanze tra il nostro pulcino e i cucù delle foto, non ce ne saremmo accorti.
Il pulcino, come ho detto, mangiava da solo, abbiamo scelto del mangime adatto a lui, introdotto un beverino nella gabbia e affibbiato un nome: inizialmente Cucù, poi mio figlio ha imposto il suo, doveva essere Ada. “Non m’importa se sia femmina o maschio”, ha detto, “Ada è un nome corto, arriverà subito quando la chiamiamo!”
Si trattava adesso di farlo crescere cercando di non umanizzarlo troppo, altrimenti addio alla sua libertà.
I primi giorni ci limitavamo a cambiargli l’acqua, il mangime, la carta alla base della gabbia ma, a un certo punto, è stato più forte di me.
Ada, ma che bella che sei, passerottina!” Ho esordito una mattina. Lo so era un cuculo ma ormai è un’abitudine per me chiamare tutti gli animali con il nomignolo passerottino, facevo così anche con mio figlio quando era piccolo.
E una volta e due e tre e quattro, alla fine il cuculo comincia a reagire. Mi sarei aspettata un consueto cucù cucù cucù invece ha emesso qualche tenue pigolio.
“Ehi, bella, ehiiiiiiiii…” mentre la chiamo, infilo un dito tra le sbarre della gabbietta e lei lui lo becca con rabbia. Avevo osato troppo, dovevo mantenere le distanze, era un pulcino di pennuto non una persona, e pure spaventato.
Nonostante tutto, era necessario indurla a volare…
Due settimane dopo apro la gabbia e la poggio sul pavimento. Volevo testare la sua fiducia, evitando di terrorizzarla, prima di cominciare il training di volo. Sono sicura che un ornitologo o un etologo troverebbero ridicolo e poco opportuno il mio comportamento.
Mi sono seduta qualche metro da lei, “Ehiiiiiiiiiiiii, Ada, vieni qui, fiiiiiiiiiuuuu” la sprono, mimando un battito di ali con le mie braccia.
Mi fissa per qualche attimo e poi corre verso di me…
Che emozione!
Mi aveva risposto, mi aveva riconosciuto come qualcuno che si stava prendendo cura di lei, ma dovevo stare attenta. Se si fosse affezionata troppo rischiavo di snaturarla.
Ho testato più volte il suo volo lanciandola in aria, purtroppo Ada spiegava le ali ma solo per abbattersi al suolo. Era terrorizzata: Piiuuuu piuuu piiiuuu, gridava con la sua flebile voce finché non la riportavo al sicuro nella gabbietta.
“Ada, forza, vola!” Continuo a spronarla, lanciandola in aria, senza ottenere risultati.
Le vacanze di Natale erano prossime e dovevamo partire in aereo. Seppur nascosta nella borsa, sarebbe stata scoperta facilmente al primo controllo aeroportuale. Allora, a chi lasciarla in custodia?
Abbiamo sperato fino all’ultimo che spiccasse il volo e adesso, a una settimana dalla partenza, dovevamo trovare una persona di fiducia disposta a prendersi cura di un cucù. Ada era parte della nostra famiglia, ormai, volevamo essere sicuri di ritrovarla sana e salva.
E così è stato. Rosa, una nostra conoscente, l’ha presa in custodia. “Ho fatto come mi avete detto, guarda com’è cresciuta, non è mai uscita dalla gabbia, ha un sacco di piume nuove…” ci informa al momento della restituzione.
Aveva avvolto la gabbia con dei giornali per evitare che Ada si spaventasse durante il trasporto sui mezzi pubblici.
C’era qualcosa nel suo aspetto che non ci convinceva. Era cambiata, ma parecchio, pareva proprio un piccione.
Corsi al computer, digitai - foto - piccione ed ecco apparire la sua immagine. Non c’erano dubbi, avevamo scambiato un cucù per un piccione!
E allora?
Mio figlio fu il primo a dichiarare che per lui non cambiava nulla: “Piccione o meno resta sempre Ada, no, gli vogliamo bene, che ci importa?!”
Certo, è sempre la nostra Ada! Aveva ribadito anche il mio compagno, mentre accoglieva il piccione sul palmo della sua grande mano. Sembrava come se Ada lo avesse ascoltato: due saltelli indietro, per spingere meglio e … PLUF PLUF PLUF, tre palline di cacca proprio al centro della sua mano. Mi è subito venuta in mente la storia Chi me l’ha fatta in testa?
“E brava Ada, adesso però te ne ritorni in gabbia…”
Cominciammo a lasciarla libera a due metri e mezzo di altezza, aggrappata sui margini dello sciacquone del bagno. Bastava sventagliare le braccia per forzarla a volare verso la cabina della doccia. Avanti e indietro, sopra e sotto, i muscoli delle ali si rinforzano. Due settimane dopo sorvolava già l’intero corridoio.
Agganciamo due contenitori per l’acqua e il mangime all’inferriata della finestra del bagno e la lasciamo sola sul davanzale con la finestra spalancata. Chiudiamo la porta e Ada vola via.
“Manco un grazie, un saluto? Siamo sicuri che non sia da qualche parte fuori, Adaaa…” la chiama Pietro dalla finestra dispiaciuto.
Ogni volta che incontro un piccione, mi viene sempre da pensare ad Ada. È libera, ci siamo riusciti, nonostante la nostra umanità.