Il Parco Felice
di Sara Marullo, letto e interpretrato dall’attrice Federica Flavoni
Immaginate un vecchietto pluricentenario con oltre due millenni sulle spalle… guardatevi attorno…
Eccomi, sono io, il parco Felice!
Ho vissuto innumerevoli rinascite nel corso della mia vita e oggi – lo vedete? – vesto i panni di un giovanotto di ventun anni. Un’area verde di tre ettari, che possiede, a pieno titolo, tutte le caratteristiche per essere considerato un parco urbano.
Tengo a ribadirlo, in risposta a tutti coloro che si ostinano a sminuirmi:
“Giardinetto”,
“Parchetto”,
“Ah, si, quel posto tra le due basiliche?”,
“Nooo, è un parco?”
Ne ho sentite di tutti i colori sul mio conto da quando sono diventato come sono. Hanno avuto, oltretutto, scarsa fantasia nella ricerca del mio nome, affibbiandomi lo stesso identico del viale che corre lungo uno dei miei lati, Carlo Felice. Un personaggio illustre, certo, principe dei Savoia e re di Sardegna ma con un carattere, a dir poco, tormentato. Probabilmente è stato proprio questo a influenzare la mia vita, piena di alti e bassi.
Ai tempi di Nerone ero di proprietà della famiglia dei Plazi Luterani, passando sotto il fisco imperiale dopo che l’ultimo discendente dei Luterani fu accusato di aver ordito una congiura contro l’Imperatore.
Sotto Costantino feci parte dei giardini della sua villa. Che fasti e che onore vivere nella Roma Imperiale! Ma andiamo avanti e in fretta, altrimenti rischio di annoiarvi con i miei ricordi da matusalemme.
La città cambia e pure il paesaggio sopra e attorno a me, tranne questo tratto delle Mura Aureliane che dal Terzo secolo dopo Cristo è sempre stato al mio fianco.
Nel Sedicesimo secolo ero una valle acquitrinosa. Tentarono, per anni, in ricordo dei bei tempi passati, di trasformarmi ancora in un giardino. Gelsi, platani, olmi, piantati e ripiantati, furono sostituiti nel primo decennio del ‘900 da tre enormi depositi della società tranviaria cui in seguito si aggiunse una giostrina.
“Me tapino, la mia fine è segnata!” gridavo in silenzio, mentre il tempo sembrava non avere fine.
Fu il periodo più triste della mia vita. Cento anni, imprigionato sotto una coltre di ferro e cemento, avvelenato dai fumi d’olio e di benzina.
Poi, una mattina, verso la metà degli anni ’30, una luce di speranza parve aprirsi all’orizzonte. Venne a farmi visita un gruppo di persone. L’intenzione era chiara, i tre casermoni sarebbero stati abbattuti e rimpiazzati con dei giardini. Un uomo assai distinto, il famoso architetto Raffaele De Vico aveva già in mente uno splendido giardino dalla parte della giostrina. Ahimè, ci vollero settanta anni prima che il progetto si realizzasse!
Nel 2000, in occasione del Giubileo, divenni ufficialmente i Giardini di Viale Carlo Felice: un doppio filare di lecci, aiuole fiorite circondate da siepi di bosso, una moderna scala d’acqua di fronte alle Mura restaurate ... altro che giardini, ero un vero parco, mi attendeva una vita nella gloria e nell’ammirazione!
Trascorso un anno, durante un concerto in piazza San Giovanni, i miei cancelli spalancati invitarono ahimè molti visitatori. A decine si accamparono sulle mie morbide aiuole.
Che sarà mai, penserete?
Il fatto è che nel cuore della notte l’impianto d’irrigazione si avviò in automatico e gli ospiti non gradirono quel risveglio bagnato.
Urla, imprecazioni, calci e calci contro i poveri irrigatori, a mani nude spezzarono i tubi. In un batter d’occhio l’impianto d’irrigazione si fermò.
La scelta del Comune di affidare la mia manutenzione alla Cooperativa 19 Giugno fu il colpo di grazia.
A poco a poco divenni l’ombra di me stesso e la gente smise di frequentarmi. Era facile nascondersi nell’ombra di un luogo abbandonato. Spaccio di droga, riciclaggio, vendita di armi: fu una vera tortura restare a guardare in silenzio senza poter far nulla.
Gruppi di cittadini provarono a rendermi più decoroso, pulivano la parte alta tralasciando il camminamento delle Mura, ridotto una discarica a cielo aperto ma, passata qualche settimana, demordevano.
Avevo notato anche una signora arrampicarsi con il figlio di tre anni sulla statua di San Francesco. non mi doveva riguardare, perché fuori dai miei confini, tuttavia, mi incuriosirono. Cominciavano dalla cima a raccogliere bottiglie vuote, soprattutto cicche, ammassate perfino nel mignolo di un penitente, mozzato sulla punta da qualche vandalo.
“Le sigarette gli bruciano il dito, vedi che è ferito, ecco perchè è in ginocchio. Dobbiamo venire spesso, così si sente meglio” disse il bambino, la prima volta.
Lui e la signora si trasferivano poi nella mia area giochi, come altre bambini con le loro mamme o papà. Ero il giardino più vicino alla scuola dei loro figli, per questo mi frequentavano, nonostante la sporcizia. “Dai mettiamoci a pulire?” proponeva, a volte, la signora.
“Perché dovremmo farlo noi? Paghiamo le tasse, se ne dovrebbe occupare il Comune!”
“Perché ci portiamo i nostri figli. Pensate a quanto potrebbe essere bello questo parco se qualcuno se ne prendesse cura.”
Che gentile, la signora, a volte si metteva a raccogliere i rifiuti nell’area giochi, sperando di stimolare una reazione. Purtroppo, senza riscontro.
Qualche anno dopo, nei primi di gennaio del 2017, un pomeriggio un signore, armato di una pala e due bustoni comincia a ripulirmi. È vicino all’inferriata su Porta San Giovanni quando la signora sta attraversando il piazzale. Un incontro del tutto casuale. “Scusi, scusa, ehi...” lo chiama la signora.
Il signore si volta, sorridendo: “Ciao!”
“Ma davvero ti sei messo a pulire il parco? domanda la signora, sorpresa “Se vuoi possiamo farlo insieme?”
Sembra una favoletta? Vi assicuro, parola di parco, è andata proprio così!
La domenica successiva s’incontrarono davanti al chiosco. E nonostante fossi molto più sporco di quanto avevano immaginato non si diedero per vinti. E allora via a spalare strati e strati d’immondizia, soprattutto nella discarica a cielo aperto lungo le Mura, la terra di nessuno!
Trovarono di tutto: bottiglie, plastica, lamiere, vestiti, centinaia di siringhe, carcasse di animali morti, due pistole addirittura!
Per non parlare di uno dei miei crucci più grandi, il gabinetto a cielo aperto di fronte alla Celletta di Santa Margherita di Antiochia. Strati e strati di cacca umana!
Margherita fu incarcerata e uccisa a soli quindici anni. alla fine del Terzo secolo D.C. Figlia di un sacerdote pagano, si convertì al Cristianesimo e rimase fedele alla sua fede accettando il martirio. Quanto era bella, se fossi stato umano avrei galoppato fino ad Antiochia per liberarla, salvandola dalla morte.
I volontari cominciarono a scoprirmi anche negli aspetti nascosti. La celletta della Santa e la Camminata dei papi interna alle Mura, la porta Romana, la leggendaria celletta di San Francesco, il rifugio antiaereo dell’ultima Guerra sullo stesso livello dove una volta si estendevano i giardini della villa di Costantino. Luoghi straordinari, stralci di storia antica e più recente, diventati in seguito tappe della caccia al tesoro che i miei Amici organizzano per farmi conoscere dai bambini.
“Davvero ci sono così tante cose al parco? Chi lo immaginava?” domandano, spesso. È una gioia infinita vederli attraversate la mia area pieni di curiositá e rispetto.
I volontari dovettero venire a patti con i miei frequentatori abituali. Col tempo, forse, pensarono, mi avrebbero rispettato. Valeva la pensa tentare.
Una famiglia estesa di rom soggiornava dalla mattina fino alle tre del pomeriggio sotto un pino dove erano alloggiate decine di sedie e due tavolini costruiti con materiale di scarto da un anziano signore.
Luciano, il fai da te, tutti i giorni arrivava alle tre per giocare a carte insieme ad altri anziani, ecco perché i rom a quell’ora sparivano.
Luciano era il più intollerante, odiava gli zingari, i neri, gli extracomunitari, cominciò a odiare tutti i volontari – confidò alla signora una volta – perché prendevano le loro difese e poi:
“Io e tutti i giocatori semo venuti prima de voi, ‘sto posto sta bene come sta, chi l’ha detto che dev’esse pulito!”
I volontari hanno convinto Mihai, un ventenne rom, a lavorare qualche tempo per l’Associazione. Anche i bambini rom a volte hanno aiutato a pulire.
C’erano, ci sono tuttora, inoltre, come tutti gli altri, i mercanti abusivi e i loro compratori.
Accorrevano a frotte alle sette in punto per stendere i loro teli colmi di mercanzia, raccattata dentro i secchi dell’immondizia, lungo il viale interno e attorno al chiosco del parco. Pure l’aiuola esterna lungo viale Carlo Felice ne era ricoperta. Decine e decine di persone: un esercito multicolore in prima linea.
“Scusate non si può vendere dentro il parco senza autorizzazione?” Li avvertì la signora una mattina. “Anvedi questa?” “Ma chi te credi d’esse?” le risposero da più fronti a muso duro.
In effetti, riflettei, era una semplice privata cittadina, “una spazzina”, abusiva pure lei, come tutti gli altri volontari. Mi pulivano senza un permesso, rischiando una denuncia oltre a una multa.
La signora tenne il punto, continuava a difendermi.
“Abbiamo pulito ed è di nuovo sporco per colpa vostra, ve ne dovete andare da qui!?”
“Altrimenti che fai?” le gridò uno di loro a due palmi dal suo viso. L’era del Covid era ancora lontana. “Chiamo la polizia!” ribadì la signora con fermezza. Restò in attesa della volante con addosso tutti i loro sguardi, pieni di rancore. L’avrebbero fatta a pezzi, probabilmente, eppure li aveva in qualche modo spiazzati, affrontandoli da sola.
Per me erano sempre stati una massa indistinta di persone a cui non interessava affatto il mio decoro. Parlottavano tra loro fitti fitti, non riuscivo mai a sentire cosa avevano da dirsi di così segreto.
Giorno dopo giorno, i volontari cominciarono a conoscerli e io con loro. Da quella massa indistinta cominciavano a emergere uomini e donne con le loro diverse storie. Franco, un vedovo alla ricerca di una donna da sposare, Ali’, il tunisino scappato dal suo paese; Carlone, il mangiafuoco; Rosa, una rom diciottenne con due figli e un marito sempre in partenza per la Romania; Mohamed, il marocchino che “l’Associazione l’ha sempre difesa”; Antonio, detto Briatore, un ragazzino di ottantacinque anni.
A luglio 2017 fui adottato ufficialmente dai volontari, ovvero dall’associazione che avevano costituito, Amici del Parco Carlo felice.
Avete sentito bene? Per loro avevo la dignità per essere ribattezzato Parco!
Devo ammettere, spesso, ero assai difficile da trattare: un diciassettenne in piena adolescenza, alla ricerca della propria identità. Adottarmi, inoltre, voleva dire essere costretti a confrontarsi con una miriade di competenze dell’amministrazione capitolina e municipale…
…Siete pronti? Via!
Dipartimento Tutela Ambientale, Assessorato Ambiente, Ufficio adozioni, Ufficio Giardini, Ufficio aree ludiche, Ufficio aree cani, Ufficio che si occupa delle disinfestazioni...
Aspettate, prendo fiato ...
… Sovrintendenza Capitolina unita alla Soprintendenza dello Stato, ricordate? Qui c’è un patrimonio storico da salvaguardare! E non ho finito, aspettate, c’è il Primo Municipio con i suoi Uffici e Assessorati che non sto qui a elencare altrimenti facciamo notte.
A luglio, quindi, la responsabilità della mia manutenzione passò agli Amici del Parco Carlo Felice. A dir la verità, dovettero accollarsi anche quella straordinaria e tutto ciò di inaspettato che avveniva al mio interno.
Ne sono successe di cose dal momento della mia adozione. Non ve le starò a raccontare tutte, non vi preoccupate, ne citerò soltanto alcune...”
Un giorno, fui invaso da un esercito di api, sorvolarono qualche istante sopra di me e si diressero in picchiata sulla recinzione dell’area cani. Una donna fermò la signora per strada e l’avvertì dell'invasione.
La polizia impose il mio sgombro immediato. Niente di più facile: c’era chi fino alla fine puntò i piedi a terra rifiutandosi di alzarsi dalla panchina, volarono insulti, minacce di querele. I miei Amici dovettero aspettare fino alle nove di sera l’intervento dell’apicultore. Si presentò con uno scatolone e un affumicatore. Sembrava un mago.
“Questo non è un nido,” affermò compito “É un’area sosta, la regina sta decidendo se rimanere al parco oppure andare a cercarsi un altro posto”.
“Cosa c’è di più bello della mia area verde!?” pensai.
A migliaia, l’una accanto all’altra, sovrastavano la regina. Era lei che l’apicoltore doveva far volare nello scatolone, le altre l’avrebbero seguita in un baleno.
“Sono nervose, la sera è il momento in cui riposano, e io le sto costringendo a svegliarsi con tutto questo fumo” spiegò l’uomo, niente affatto pentito.
L’attesa fu snervante. Le api sembravano preferire le braccia e il volto privi di protezione dell’uomo, piuttosto dello scatolone.
“Eccola finalmente la regina!” esclamò dopo un’ora. Ci vollero oltre due ore prima che entrassero tutte nello scatolone.
C’erano ancora delle api sul viso dell’uomo mentre guidava l’auto verso l’uscita. Il loro ronzio riempì per un attimo il mio silenzio. Fu un’esperienza meravigliosa!
Nei tempi del Covid la città era deserta, sembrava in sospensione, al contrario di me, che, sebbene chiuso al pubblico, ero in continuo movimento. Di notte, come al solito, in molti saltavano le inferriate, e si godevano la libertà: coppie giovani, gruppi di ragazze e ragazzi in vena di giocare a palla o bivaccare fino alle ore piccole, i senzatetto alla ricerca di un luogo sicuro in cui dormire. Durante questi mesi le loro visite mi rincuoravano. La solitudine non si addice a un parco.
Naturalmente i miei Amici continuarono a prendersi cura di me, almeno tre volte la settimana. Le siepi di bosso piantate in occasione della recente riqualificazione del giardino storico erano state infestate dai bruchi di Piralide.
Anni di lotta da parte dei miei Amici affinché il Comune si decidesse a finanziare dei lavori al parco, finalmente accade il miracolo, e che succede? La mia riqualificazione è prevista solo nella prima parte. Vi ricordate il giardino storico disegnato dal De Vico?
È storico quindi va protetto, e allora i miei Amici devono manutenerlo e assicurarsi che le aiuole non vengano calpestate.
A questo punto il Comune consegna loro una decina di cartelli, semplici fogli A3 non plastificati, per facilitargli il compito. Inutile descrivere la lotta quotidiana, li hanno accusati perfino di falsificato quei cartelli.
Ma andiamo oltre, parlavano delle Piralidi. Importate dalla Cina nel 2007, queste farfalle hanno infestato le siepi di tutta Italia, superando in notorietà il Punteruolo, il famigerato killer delle palme.
La storia era nota, si preferisce però restare fedeli al progetto del famoso architetto.
Allora eccoli i miei Amici a spruzzare disinfestante e a staccare i bruchi a mani guantate: piantina dopo piantina, ore e ore in una lotta contro il tempo. L’indesiderato ospite doveva essere eliminato prima di giugno, momento della sua metamorfosi in farfalla.
Alla fine il Bosso è sopravvissuto all’assalto e la signora, presidente dei miei Amici, si è beccata una querela per aver disinfestato senza il possesso del patentino richiesto.
Adottarmi non è stata una passeggiata, ve lo assicuro. Ed io sono grato a tutti loro per aver resistito fino ad ora.
Ci sono padroni di cani arrabbiati perché i loro cani non sono “più liberi come prima”, o persone frustrate dalla vita, che mal sopportano di vedere qualcuno prendersi cura di un bene pubblico senza pretendere un ritorno economico, oppure, semplicemente, persone infelici. Capita spesso di sentirli sfogare contro i miei Amici.
Quante volte avrei voluto gridargli in faccia: “Vi siete dimenticati in quali condizioni ero? Guardatemi adesso!”
Ne sono successe di cose dall’arrivo dei miei Amici. Hanno organizzato tantissimi eventi per bambini, progetti con le scuole, decine e decina di studenti mi hanno visitato e pulito imparando in prima persona il senso della cittadinanza attiva.
Ne sono passati di volontari disposti a ripulirmi: Riccardo, Erika, Cinzia, Marcela, Patrizia, Alberto, Aldo, Bianca, Allan, Pietro, Alessandra, Giulia, Claudia, Luca, Edoardo, Maria, Mariella, Paolo, Andrea Carlos, Luca, Daniela, Laura, Manuela, Yosupha, Anna, Antonia che si prende cura anche lei della colonia dei gatti, Alfredo, Lamin, Sara e Ismael, un senzatetto che da più di un’anno cambia i secchi dell’immondizia, per citare soltanto gli attuali soci operativi.
C’è ancora Alberto, un nostro caro amico che si occupa da decenni della colonia dei gatti qui sulle Mura. Ve ne potrebbe raccontare di storie…
Infine, non per questo meno importanti, i gestori del chiosco – ora, sede dell’Associazione – Ettore e Emiliano. Hanno fin da principio sostenuto l’Associazione e con loro reso possibile la realizzazione di molti eventi.
E poi tutte le associazioni con cui i miei Amici hanno collaborato per popolare sempre più la mia area verde.
Grazie a tutti voi miei cari Amici, se sono un Parco Felice il merito è tutto vostro!
Ah, dimenticavo, il mignolo del penitente della statua di San Francesco è stato restaurato lo scorso anno e i lavori qui da me dovrebbero riprendere il prossimo anno. Speriamo che il Comune mantenga la sua promessa…